ed ecco il testo
(Estratto da “The way it was”, la biografia ufficiale di Stanley Matthews, Headline Book Publishing, paperback edition, 2001, pag. 442-447.)
“Nel Novembre del 1953, però, la Football Association (La FIGC inglese, nota mia) ricevette la dimostrazione che il calcio inglese non era il meglio del mondo, quando l’Inghilterra ricevette l’Ungheria a Wembley.
“… Fu una partita in cui i giocatori inglesi si sentirono stranieri in un mondo alieno. In quel grigio e nebbioso pomeriggio a Wembley, l’Inghilterra fu cinicamente ed efficacemente passata per la spada. Si trattava della prima sconfitta casalinga contro una squadra continentale (a parte, cioè, le “home countries”: Scozia, Galles, Irlanda del Nord, nota mia) ma, più ancora, la partita segnò un momento di cesura per il calcio inglese. Il modo in cui preparavamo e giocavamo le partite, il modo in cui percepivamo noi stessi, non sarebbe mai più stato lo stesso. Anziché essere i “maestri”, quel giorno ci trovammo ad essere i “pupilli”, quando la nazionale ungherese, che la stampa battezzò i “magici magiari” vinse un emozionante incontro per sei goal a tre. Secondo me, tale risultato non rifletté completamente la loro superiorità sul campo.
“L’Ungheria era un avversario poco familiare per noi ma non completamente sconosciuto. Avevano vinto le olimpiadi del 1952 e, dal 1945, avevano vinto l’ottanta per cento delle partite giocate (Qui aggiungo alcune note: alle olimpiadi del 1952 i magiari, che come tutte le squadre dell’est erano teoricamente dilettanti e quindi schieravano la formazione base, avevano battuto in finale la fortissima Yugoslavia, che alcuni anni dopo, a Torino, ci sconfisse per 6-1; erano imbattuti da oltre venti partite, che salirono a trenta prima della sfortunata finale mondiale del 1954; ed avevano di recente inaugurato il nuovo stadio olimpico di Roma con un secco 3-0, risultato che avrebbe potuto essere facilmente moltiplicato per 2 o 3, e che aveva fatto intitolare alla Gazzetta della Sport “L’olimpico inaugurato da Attila!”) Avevo incontrato alcuni di loro nella partita Inghilterra-Resto d’Europa (4-4) e sapevo che possedevano giocatori di una classe da disorientare chiunque. “Eppure … negli spogliatoi non ci fu menzione su come contrastare il loro centravanti arretrato (una novità, per quei tempi, nota mia), Nandor Hidegkuti. Anche all’intervallo, dopo che quel sublime giocatore ci aveva devastato, niente fu detto a suo riguardo ed a nessuno di noi fu dato il compito di seguirlo. Un grosso errore, a mio parere.
“Si dice spesso che il genio è “1% intuizione e 99% sudore”, un detto banale che, riferito alla squadra ungherese del 1953, non sta in piedi. L’Ungheria sudava molto, è vero, ma era il loro gioco immaginifico, che faceva fare il lavoro al pallone, che dimostrava il loro genio. “Il direttore di quel trionfo fu un corpulento giocatore cui la stampa aveva affibbiato il nomignolo di “maggiore galoppante”, un certo Ferenc Puskas. Puskas meriterebbe un posto in qualunque “squadra ideale”, in ogni epoca. Maggiore dell’esercito, giocava per la modesta squadra della Honved di Budapest e non vide i suoi giorni migliori se non quando passò al Real Madrid, dopo i trent’anni. La sua figura, bassa e tarchiata, nascondeva un talento precoce ed una vivacità mozzafiato. Con un piede sinistro che carezzava il pallone come Romeo avrebbe fatto con la guancia di Giulietta, egli era l’epitome del monello senz’età del campo di gioco, fra pura impudenza ed arte eccelsa. Il magico piede sinistro di Puskas tranciò un solco fra la difesa inglese. Ad un certo punto, in azione sul lato sinistro della porta difesa da Gil Merrick, in piena corsa, risucchiò indietro il pallone con la suola della scarpa e l’accorrente Bill Wright scalciò l’aria di Wembley e nulla più. Geoffrey Green scrisse sul Times del giorno dopo: “Billy accorse su quel pallone come un pompiere ad un falso allarme!”
“Sull’1-4 alla fine del primo tempo, la partita, per quel che ci riguardava, era già finita. Nel secondo tempo fu la stessa storia. L’Ungheria combinava due stili: palle lunghe e pedalare, tipico dei britannici, ed il paziente gioco di passaggi corti e filtranti, favorito dai sudamericani. Era un’unione immaginativa di gran controllo di palla, velocità di movimento e visione esoterica, fusi insieme a creare uno stile di calcio che era innovativo quanto produttivo. Per decenni avevamo pensato che il limite dei continentali stesse nell’incapacità di tirare con intelligenza (qui Matthew si riferisce alla riluttanza degli europei a tirare da fuori area, che è rimasto il limite dei paesi latini fino a non molti anni fa, nota mia). Quel pomeriggio un altro mito fu sfatato. Sovrastati nel ritmo e nella manovra, fummo superati come birilli ed ancora una volta Wembley vide la storia del calcio scritta davanti ai propri occhi.
“… Nel ritorno, nel Maggio del 1954, L’Inghilterra fu massacrata per 7-1. Io non giocai ma, se anche avessi giocato, non avrei potuto fare la minima differenza, talmente superiore era il calcio ungherese di quei tempi rispetto al nostro.
“Nei primi anni ’80, George Best e Denis Law allenavano le squadre giovanili in Australia. Ogni pupillo voleva naturalmente essere nel gruppo diretto personalmente da George o Denis e quindi è facile immaginare la delusione di un gruppo di ragazzini che fu posto sotto le cure di un grasso allenatore straniero, così adiposo che la pancia gli fuoriusciva dalla tuta. Già dal primo giorno lo straniero era stato soggetto della derisione dei giovani Aussies sotto la sua direzione. I ragazzi facevano rudi commenti riguardo alla sua stazza, il fatto che parlasse un inglese bastardo e ridevano quando correva dietro alla palla. Verso mezzogiorno, l’anarchia regnava nel gruppo ed i ragazzi non prestavano più alcuna attenzione all’allenatore, limitandosi a passarsi la palla tra di loro, sordi ai suoi tentativi di rimetter ordine nel gioco.
“George e Denis, che passavano nei pressi per recarsi a pranzo alla sede del club, notarono la cosa e, capita l’antifona, si unirono al gruppo. I ragazzi immediatamente si raggrupparono attorno a loro, felici di bersi ogni parola dei due. George non disse granché. Si limitò ad allineare dieci palloni a circa 20 yards (18 metri, nota mia) dalla porta, chiamò i ragazzi attorno a sé ed invitò lo straniero a colpire il primo pallone.
“OK, ragazzi, qui ci sono dieci palloni. Secondo voi, quante volte riuscirà il vostro allenatore a colpire la traversa?”
“Vari numeri furono suggeriti ma un ragazzo, particolarmente vocifero, proclamò: “Zero! Con quella pancia non è capace neanche di vedere il pallone!”
“Stendendo un braccio verso i palloni, George invitò lo straniero a tentare la fortuna. I ragazzi osservarono, a bocca aperta, un pallone dopo l’altro fracassarsi contro la traversa 20 yards più in là. Quando giunse all’ultimo pallone, l’allenatore l’alzò in aria, lo ricevette sulla fronte e ve lo lasciò per un attimo, prima di spostare la testa e coglierlo sulla spalla sinistra. Muovendo il corpo da un lato, il pallone cadde ma solo per essere colto dal tacco sinistro del piede dello straniero. Con quello lo rilanciò in aria di nuovo e produsse un tiro al volo di tale potenza che fece tremare a lungo la traversa. Dieci su dieci! I ragazzi esplosero in un applauso spontaneo.
“George e Denis si allontanarono, mentre il gruppetto di giovani Aussies circondava l’allenatore chiedendo come potesse mai fare una cosa del genere.
“What’s ya name, mate?”, come ti chiami, chiese il ragazzo vocifero.
“George si voltò sui tacchi e, puntando severamente l’indice verso il ragazzo, disse: “Per te, giovanotto, lui è Mister Puskas!” Quindi lasciò il campo per andar a pranzo con Denis.
Erano pagine davvero belle e soprattutto sincere, valeva la pena di rileggerle.
La fantastica Ungheria di Puskas, Hidegkuti, Bozsik, Lantos, Czibor e Kocsis non diventò mai campione del mondo. Imbattuta da 30 partite, accumulati 27 goal nelle cinque partite della coppa del mondo in Svizzera nel 1954 (Kocsis fu capocannoniere con 11 reti), eliminati in drammatiche e spettacolari partite i co-favoriti brasiliani e gli uruguaiani campioni del mondo, la squadra che fece sognare una generazione doveva trovare la sua amara nemesi proprio nella finale, perduta 2-3 contro la Germania dei fratelli Walter, dopo una rete ingiustamente annullata e tre traverse colpite. Due anni dopo, a seguito del soffocamento della rivolta ungherese da parte dei carri armati di Krushev, i migliori giocatori fuggirono all’estero ed i rimanenti non furono nemmeno in grado di qualificarsi per i mondiali del 1958 in Svezia. L’Ungheria, che già nell’ante guerra era stata una potenza calcistica, iniziò quel lento declino che la portò dov’è adesso, in fondo alle classifiche europee.
Forse non furono i “magici magiari” di quella breve e sfolgorante stagione che inventarono il calcio “totale”. Negli anni successivi fu il Brasile di Pelé che impose il calcio “bailado” e colpì l’immaginazione delle folle. Si dovette aspettare l’Olanda di Cruijff per vedere di nuovo un simile stile. Ma è certo che l’Ungheria del 1954 rimase per sempre impressa nella mente di coloro che poterono osservarla (i mondiali di quell’anno furono i primi trasmessi in televisione) e questi, come il generoso Matthews, ne passarono il ricordo alle future generazioni.
Le immagini che personalmente ho del grande Puskas non sono purtroppo molte. Qualche azione nelle partite di quel mondiale e nella citata amichevole di Wembley, qualche goal con il mitico Real Madrid dei Di Stefano e Gento. Piuttosto, mi tornano sempre alla mente le sequenze della cerimonia di premiazione, dopo la finale. Oggi ci siamo abituati a giocatori che piangono se perdono, piangono se vincono, piangono se sbagliano un rigore o sono espulsi o sostituiti. Ragazzini viziati ed istupiditi dalle assurde cifre che ricevono per il poco spettacolo che producono. Quanto diverso fu il comportamento di quei campioni! Puskas che si avvicina al capitano tedesco, Fritz Walter, si liscia i capelli fradici come per rendersi presentabile, si asciuga la mano ai pantaloncini, quindi la porge, franca e virile, all’avversario, guardandolo fisso negli occhi. I suoi compagni di gioco lo imitano, uno dopo l’altro, ognuno lanciando un’occhiata furtiva e quasi imbarazzata alla coppa Rimet che il tedesco tiene in mano, quella Vittoria Alata che avrebbe dovuto volare assieme a loro verso il Danubio. Quindi salutano il pubblico ed escono a testa alta. Solo negli spogliatoi, ci viene raccontato, diede ognuno sfogo all’inconsolabile amarezza per l’irripetibile occasione fallita.
Nonostante quella sconfitta imprevista, le gesta di Puskas e soci non morirono. Un giorno, forse, le folle d’appassionati calcistici del mondo, stanchi come me del calcio senza fantasia e senza goal e dei nostri tempi (gli ultimi mondiali sono stati ancor più orrendi di quelli precedenti e con ancor meno reti), chiederanno che siano riesumati i filmati di quei tempi e le partite ritrasmesse in tv, di tanto in tanto, a ricordarci che i molti goal, lungi dall’essere sintomo di pochezza tecnica, come voleva e vuole la scuola difensivistica del (poco) compianto Gianni Brera, sono infine l’essenza stessa del calcio. Un football con tanta corsa e pochi goal è come un giardino con tante aiuole e pochi fiori. Il profumo c’è, ma non è sufficiente a far girare la testa. E forse quelle immagini insegneranno ai moderni giardinieri del calcio e produrre di nuovo tanti fiori, così come l’insegnarono ai contemporanei.
Anche se non ho potuto ammirare Puskas dal vivo, sono certo che coloro che lo fecero lo ricordano ancora così, mente galoppa libero e possente, come uno stallone selvaggio, verso l’area avversaria, il magico piede sinistro che disegna impossibili geometrie sul campo di gioco.